(Questa ne torna e ci fa un pippone? Sì, esatto, un doverso pippone. Ma comunicare è il mio mestiere, farlo nel digitale pure, quindi eccotelo servito.)

Questo è il mese del Pride e si sa, le aziende non sanno cedere ai trend. Li cavalcano, ma a volte cadono e si fanno maledettamente male.
E a noi non resta che guardare, augurandogli che la shitstorm non sia troppo difficile da affrontare (perché tanto ci sarà, anche se ammetto di detestare tutti quest* Sailor Moon dei social).

Quindi quale momento migliore per parlare di pinkwashing se non nel mese del Pride, delle bandiere e dei loghi arcobaleno.

Partiamo dal principio: cos’è il Pinkwashing?

Il termine “pinkwashing” deriva dalla combinazione di due parole: “pink” (rosa) e “whitewashing” (imbiancare/pulire, in senso figurato). Originariamente utilizzato in riferimento alla promozione di cause LGBTQ+ da parte di aziende o istituzioni, il concetto di pinkwashing si è ampliato per includere anche altre cause sociali e politiche.

In sostanza, il pinkwashing si riferisce all’uso delle questioni LGBTQ+ (o altre cause solitamente riconducibili ai diritti umani) per distrarre l’attenzione pubblica da comportamenti discutibili o per migliorare l’immagine di un’azienda senza un reale impegno nei confronti della causa stessa.

Riguarda le aziende e organizzazioni che monetizzano grazie alle persone senza pagarle.

Riguarda anche tutte quelle aziende che si fanno portavoce di cause sociali e producono/vendono prodotti che calpestano i diritti umani, causando problemi e gravi malattie a chi è parte della produzione.

Ma anche tutte quelle aziende che sfruttano le giuste cause per la notorietà del loro brand e per capitalizzare senza donare realmente il ricavato.

Potrei menzionare l’inchiesta Balocco per fare un esempio, ma non lo farò (ops!).

Fin qui tutto giusto, no?
Eppure ecco che mi sembra di scorgere in lontananza le aziende che durante il mese del Pride sfoggiano il logo arcobaleno ma hanno le chat Telegram dell’ufficio con commenti sessisti. Vi vedo, siete bellissim*.

Insomma, prima di urlare al mondo le ingiustizie sarebbe bene iniziare a curare prima i propri spazi.

E vale per le aziende, ma anche per i piccoli brand e per i liberi professionisti. Farsi portavoce delle questioni LGBTQ+ e dei diritti umani è sicuramente giusto e valido, ma è necessario assicurarsi di fare il proprio. Non basta ricondividere post, fare storielle con l’arcobaleno e cambiare il pulsante dell’e-commerce nel mese del Pride.

Da quando questi temi sono diventati centrali ( e per fortuna), le aziende hanno iniziato a farsi portavoce di molte cause legate ai diritti umani. Se prima c’erano l’ambiente e la sostenibilità, ora sembra che ad accaparrarsi tutta l’attenzione siano le persone e i loro diritti. Bisogna farlo certo, ma bene. Bisogna saper riconoscere i propri privilegi e riconoscere che non tutti abbiamo accesso alle stesse risorse.

Sostenere cause sociali e politiche senza poi adottare reali misure in azienda per abbattere bias, stereotipi e diversità non ha senso.
Ed è ciò che è successo con KFC e Komen (associazione che si occupa di cancro al seno) nel 2010 con “Butcher for the Cure”: un cestino di pollo, 50 centesimi alla buona causa. Ne aveva parlato Marketing Espresso in questo post .

Perché pinkwashing allora, se sembra tutto bello e giusto?
Il vero problema di questa collaborazione è che il consumo di alimenti fritti oltre a causare obesità, è causa strettamente collegata allo sviluppo del cancro stesso. Quindi diciamo che sfruttare l’attivisimo solo per notorietà, quando l’azienda e i suoi prodotti vanno in tutt’altra direzione, non è mai un’ottima scelta.

Pensaci cento, mille volte prima di intraprendere azioni del genere.
Sono giuste cause, ma devono essere DAVVERO in linea con i valori aziendali.

Si è tornato a parlare di pinkwashing nell’ultimo periodo, perché?

Perché il pinkwashing è anche politico. I governi che utilizzano politiche a favore dei diritti LGBTQ+ per distogliere l’attenzione da altre violazioni dei diritti umani fanno pinkwashing. Dietro alle bandiere arcobaleno oggi si nascondono genocidi e pulizie etniche commessi da stati e organizzazioni.

Una chicca: sapevi che il termine pinkwashing è stato coniato proprio da un’attivista pro-Palestina nel 2010?

Il governo di Israele veniva accusato al tempo di costruire la sua immagine come quella dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”, con tanto di Prides e parate a favore delle comunità LGBTQ+. Nel 2010 Israele si diceva “Queer friendly” e utilizzava tutti questi temi per fare propaganda, ma sappiamo bene che il conflitto israelo-palestinese e le ingiustizie non sono iniziate il 7 ottobre.
Un esempio di pinkwashing politico lo troviamo anche nel post pubblicato da @jewbelong che fa riferimento al Pride di Israele (che si terrà, a differenza di Gaza, insinuando appunto la scarsa attenzione ai temi LGBTQ+ nello stato della Palestina).  Non ho trovato il riferimento originale ma c’è un post di @theslowfactory che parla proprio di questo.

Qual è il reale problema dietro il pinkwashing?

Il pinkwashing sfrutta le lotte e le sofferenze reali di comunità marginalizzate per scopi di marketing o propaganda. Questo non solo sminuisce l’importanza delle cause, ma può anche deviare risorse e attenzione dalle organizzazioni e dagli attivisti che lavorano realmente per il cambiamento.

Spesso quando si perde la fiducia in qualcuno o qualcosa, si tende a generalizzare. Se un’azienda fa pinkwashing, allora saranno tutte così, e nessuna si occuperà realmente della causa.
Inoltre, il pinkwashing può creare un falso senso di progresso, inducendo il pubblico a credere che le questioni siano state risolte quando nella vita quotidiana nulla è stato risolto.

Cosa possiamo fare?

Come consumatori, possiamo fare la nostra parte per combattere il pinkwashing:

  1. Informarsi: Prima di supportare un’azienda, informiamoci sulle sue pratiche e sul suo impegno reale verso le cause sociali.
  2. Sostenere attivisti e organizzazioni Reali: Premiare, donare e sostenere quelle aziende, organizzazioni e individui che dimostrano un reale impegno verso i diritti LGBTQ+. Questo include acquistare prodotti o servizi da aziende che hanno una storia verificabile di supporto alla comunità LGBTQ+.
  3. Chiedere trasparenza: Esigere che le aziende siano trasparenti riguardo alle loro. Controllare se supportano effettivamente la comunità con azioni concrete, come politiche inclusive, donazioni a organizzazioni LGBTQ+ e impegno per i diritti umani.
  4. Coinvolgere le comunità LGBTQ+: Assicurarsi che le voci delle persone LGBTQ+ siano al centro delle campagne di marketing e delle politiche aziendali.
  5. Sostenere media responsabili: Promuovere e sostenere mezzi di comunicazione che riportano accuratamente e criticamente sul pinkwashing, mettendo in luce sia i falsi supporti che gli autentici.
  6. Educare internamente le aziende: Se si fa parte di un’azienda, promuovere la formazione e la sensibilizzazione sui temi LGBTQ+ all’interno dell’organizzazione, assicurandosi che non si tratti solo di una facciata, ma di un impegno reale verso l’inclusione e la diversità.

In conclusione, mentre è positivo vedere un aumento della visibilità e del supporto per le cause LGBTQ+, è essenziale rimanere critici e consapevoli delle motivazioni dietro questo supporto.

Attraverso un approccio combinato di consapevolezza, responsabilità e azioni concrete, è possibile contrastare il pinkwashing e promuovere un reale progresso verso l’uguaglianza e i diritti per tutte le persone.

Chiudo riprendendo una frase bellissima che c’è ho trovato nel post di TheSlowFactory:
“Senza i diritti umani fondamentali, non ci sono diritti per nessuno”.

Torniamo a praticare la gentilezza.
(Non è mai troppo tardi).