Quante volte capita che i nostri parenti ci chiedano con tono inquisitorio “ma scusa, che lavoro fai?”. E quante volte capita che ci mandino su whatsapp l’avviso di un concorso al quale dobbiamo assolutamente partecipare così finalmente ci possiamo sistemare (perché chi se ne frega se a noi piacerebbe o meno lavorarci in quel posto, questo ha poca rilevanza).
Comunque, ogni volta la solita storia, siamo tutti lì a cercare di spiegare con parole semplici cosa significa svolgere il nostro lavoro, ma non è semplice.
I miei nonni ancora, ogni volta che passo da loro, mi chiedono come va il lavoro (dopo tre anni di Partita Iva e con tono sempre preoccupato).
Cioè potevo capirlo in pandemia, ma ora basta, potete stare tranquilli, me la cavo. Ma ora torniamo a noi.
Negli ultimi anni, il mondo digitale ha conosciuto una crescita esponenziale e sono nate nuove figure professionali. Ci sono i content creator, gli ads specialist, i social media manager, i copywriter, i digital marketing specialist, i canva expert e potremmo andare avanti per ore.
Ma, nonostante i grandi progressi tecnologici e l’importanza che il digitale ha acquisito nella nostra vita quotidiana, i lavori digitali vengono ancora guardati con pregiudizio.
“Ah perchè lavori?” è la mia preferita.
Ve possino.
Come raccontano anche Camihawke e Alice Venturi nel podcast Tutte le volte che, molte persone considerano questi lavori una pacchia se paragonati a quelli tradizionali, in cui la fatica fisica è una componente fondamentale.
“Lavori tutto il giorno sedut* davanti al pc, ma di che ti lamenti?”.
Se non ti alzi tutti i giorni la mattina all’alba e non svolgi un lavoro che ti sfianca fisicamente stai solo giocando a quanto pare.
Stai più di 5 ore fuori casa? ok lavori.
Stai in piedi almeno tre ore al giorno? ok lavori.
Fai la mamma a tempo pieno? non lavori, mantenuta.
Usi una tastiera? mmh, privilegiat*.
Non hai una sede fissa? no tu non lavori.
Sei un artigian*? un hobby.
Lavori con i social? un passatempo, vergogna che ti paghino.
Come se la fatica mentale non valesse nulla rispetto a quella fisica.
(Andate a raccontarlo al Sig. Burnout e vediamo che vi risponde).
A parte tutto, io credo che questi pregiudizi siano dovuti alla mancanza di una conoscenza approfondita delle professioni digitali e del loro valore. Lo vedo anche con i miei clienti, ad alcuni bisogna ancora spiegare perchè sia fondamentale essere presenti online e perchè sia necessario investire in questo senso.
Comunque, ogni lavoro ha i suoi pro e contro, e anche nei lavori digitali ci sono dei risvolti negativi.
Esporsi sui social: lati negativi
Anche i lavori digitali comportano un’alta dose di stress, come tutti i lavori tradizionali. Già, non si tratta solo di pubblicare qualche foto carina o di postare una frase motivazionale ogni tanto. Chi lavora sui social deve essere sempre al passo con le ultime tendenze, le novità delle piattaforme, conoscere i gusti del proprio pubblico e creare con costanza contenuti interessanti e coinvolgenti. E soprattutto sfidare l’algoritmo, che spesso non premia i contenuti per cui abbiamo lavorato tanto. Anzi, come ho già detto in uno dei miei ultimi post, più i contenuti sono brutti, poco pensati e amatoriali, meglio funzionano a quanto pare (e vale anche in termini di vendita).
Inoltre, se lavori sui social,chiunque può commentare e giudicare il tuo lavoro, anche quelli che non hanno la minima idea di come funzioni (attenzione a quelli con la foto profilo con gatti e cagnolini simpatici, sono i più crudeli e spietati). Non è raro ricevere critiche o insulti gratuiti (soprattutto quando si ha un pubblico molto ampio e ci si rivolge a molte persone) e questo può mettere a dura prova autostima, pazienza e nervi.
A tutto questo si aggiunge il fatto che il lavoro sui social non conosce orari: bisogna essere sempre presenti, anche la sera o nei weekend, magari per seguire eventi in diretta o rispondere ai messaggi dei follower. E poi succede che a volte i risultati non rispecchiano le nostre aspettative e subentra la frustrazione. Inoltre bisogna saper gestire il tempo e bilanciare il lavoro con la vita privata, che può diventare difficile quando si lavora con uno strumento che abbiamo sempre a portata di mano.
Il giudizio degli altri: essere sempre sotto la lente d’ingrandimento
Quando lavori sui social devi affrontare non solo le difficoltà legate al lavoro in sé, ma anche il giudizio degli altri.
Avete seguito qualche tempo fa la vicenda di ClioMakeup? Clio Zammatteo, nota youtuber e influencer del settore beauty è apparsa recentemente in lacrime in un video in cui mostra tutta la sua frustrazione riguardo pressioni e critiche che ogni giorno devono affrontare i content creator. Di fronte alla sua reazione il web si è diviso: c’è chi le ha rivolto parole di conforto e chi ha detto “Clio sei da molto sui social e non ti sei ancora fatta la corazza? Forse dovresti cambiare lavoro.”
Come se la fragilità fosse una colpa. Come se mostrare la debolezza fosse un fallimento. Ma la vera colpa è di chi non rispetta la fragilità e la sensibilità, di chi insulta, di chi spara sentenze e cattiverie gratuite.
Esporsi sui social significa manifestare le proprie idee su una piazza pubblica ed essere sottoposti costantemente al giudizio delle persone. Il mondo del web è diventato un luogo sempre più ostile: le persone coperte dall’anonimato si sentono autorizzate a fare e dire ciò che vogliono senza rispettare la sensibilità degli altri, senza filtri. Per questo può essere difficile dire ciò che si pensa: subentra la paura di non essere capiti, di essere giudicati male, o diventare le vittime di qualche shit storm improvvisato.
Quindi capita che ci si autocensuri, per paura o poco coraggio, o semplicemente perchè non si vuole passare ore a difendere e sostenere le proprie tesi, anche quando ci crediamo fermamente. Perché poi dovrai avere a che fare con chi ti attacca e basta, e non ha nessuna intenzione di avere un confronto educato e profondo sulla questione. E in un Paese dove c’è libertà d’espressione e di pensiero è un vero peccato che ci si autocensuri, limitando le opinioni, le idee e i dialoghi che si costruiscono intorno ad esse.
La mancanza di un dialogo costruttivo
Ha ragione Umberto Eco quando sostiene che i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli: prima parlavano al bar, senza danneggiare la collettività e venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel.
Per affrontare il problema degli haters, è importante promuovere una cultura del dialogo rispettoso e costruttivo sui social media. Le piattaforme stesse potrebbero fare la loro parte nell’incentivare comportamenti rispettosi e prevenire gli abusi. Anche ognuno di noi dovrebbe fare la sua parte, del resto queste piattaforme sono vere e proprie comunità, quindi perchè non cominciare facendo attenzione a ciò che si pubblica, rispettando le regole e soprattutto gli altri con le loro opinioni (anche se diverse dalle nostre).
Off topic: non vi dico gli insulti e i commenti aggressivi sotto le ADS che devo moderare o nascondere ogni volta, è incredibile.
Ci pensate se per registrarsi sui social fosse obbligatorio inserire i dati della carta d’identità? Secondo voi cambierebbe qualcosa? Chissà. Io credo di no, proprio per la percezione che si ha dell’uso di queste piattaforme, sembrano giochini dove ognuno si sente libero di dire e fare quello che gli pare, ma non è proprio così.
Esporsi sui social: i lati positivi
Esporsi sui social ha i suoi lati negativi ma allo stesso tempo è una grande opportunità per chiunque voglia promuovere la propria attività, i propri valori o costruire una carriera digitale.
La costruzione del personal brand sui social media, avviene soprattutto attraverso la condivisione delle idee, dei valori, delle esperienze e perchè no, anche dei propri lavori. Mostrare il tuo valore e la tua professionalità, può contribuire a rafforzare quella che è la reputazione online. Può farti diventare un punto di riferimento nel tuo settore, aprirti la strada per nuove opportunità lavorative, creare nuove connessioni professionali e relazioni personali. Insomma del buono c’è.
Bisogna sottolineare che nel processo di costruzione del proprio personal brand è essenziale avere sempre consapevolezza dei rischi connessi all’esposizione sui social media, e gestire con cura e attenzione la propria immagine online.
Io per prima, per paura di espormi, inizialmente avevo creato due diversi profili: quello professionale e quello personale (più ludico). Ma alla fine ho deciso di cambiare rotta. Io sono quello che sono, e il mio brand non può far altro che rispecchiare la mia persona. Il mio brand è fatto anche di buon cibo, di posizioni femministe, di inclusività e di preferenze musicali. Per come la vedo io, è una cosa che non si può scindere. Mi ci è voluto del tempo per capirlo, ma l’ho capito, e ora vivo i social e il mio lavoro sulle piattaforme con molta più serenità.
Quindi se sei tra quelli che pubblica foto di gattini o dei suoi workout, sappi che non smetterò di seguirti per questo, anzi!
Non credo che il valore o la validità di una persona possa dipendere da questo.